48. Canaglia

1968
olio su tela – cm 50×60

Il quadro risente del clima turbolento del ’68, e delle letture di Herbert Marcuse, Ronald Laing, Sheldon Kopp, e delle discussioni sulla libertà, l’autorità, il potere, le convenzioni sociali e familiari, l’oppressione, la repressione. la contestazione.

In esso ho voluto rappresentare il concetto di potere attraverso una figura inaspettata. Ho dipinto un banalissimo cane, ma l’ho ripreso con una prospettiva grandangolare dal basso, facendolo apparire così imponente da uscire dai limiti della tela. Non è un semplice cumulo di terra quello su cui si erge, ma una montagna vera e propria, con pareti e ghiacci che contrastano con la distesa deserta e i massi che si vedono in basso. Volevo che il cane sembrasse una figura gigantesca, monumentale, ma al tempo stesso non sembrasse altro che un cane, anche se alienante e alienato dal suo stesso ergersi in una crescita fuori scala. E che la sua furia, il suo abbaiare nel vuoto in un deserto sconfinato, fosse emblema della solitudine di un messaggio che si perde, non trova destinatari.

Il titolo, “Canaglia”, è un’espressione che ho scelto proprio per la sua contraddizione. Il termine evoca qualcosa di spregevole, un mascalzone o un delinquente, e questo stride con l’imponenza della figura che ho dipinto. Per me, questa contraddizione era il modo di descrivere il potere: qualcosa di grande e minaccioso, certo, ma al tempo stesso infido e canagliesco nella sua essenza. Il cane abbaia con forza, ma lo fa in un deserto, in un vuoto dove non ci sono ascoltatori. Quell’abbaiare, per me, rappresenta la sua inutilità di fondo. Se guardiamo la parte superiore del cane, vediamo la forza aggressiva del potere. Se guardiamo la parte inferiore, vediamo le zampe di un povero cane qualunque che deve tenersi in equilibrio sulla vetta di un monte impervio.

La pittura per me non è solo rappresentazione, ma un modo per porre un problema o un tentativo di risolverlo. L’atto di gridare, anche quando non si è ascoltati, è un problema di comunicazione, quando questa non tiene conto dell’ascoltatore, e continua a urlare anche quando non c’è più nessuno ad ascoltare. Il suo è l’urlo di chi sa che il pubblico si sta allontanando, ma sente il dovere di continuare a gridare. E deve urlare sempre più forte, in una espressione che trova la sua ragione d’essere nel suo stesso atto, al di là del fatto che qualcuno possa sentirla o meno, e che il pubblico si sia allontanato tanto da essere uscito fuori dal quadro.

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